MESTIERI DIMENTICATI: i lavori dei nostri nonni che ormai nessuno ricorda più
I falegnami e le segherie
di Giorgio Casamatti
Per riprendere il filo del racconto interrotto il mese scorso, parliamo ancora dei falegnami che, al tempo dei nostri nonni, producevano i più svariati oggetti di uso comune: dalle ruote alle tinozze, dalla mobilia per l’arredamento alle cassette per la frutta e le derrate alimentari. Erano artigiani che solitamente si specializzavano in un particolare settore anche se, in caso di necessità, erano in grado di costruire o riparare qualsiasi cosa. Per ricordare alcuni di questi maestri del legno ci serviamo dei ricordi lasciati da Guido Mazzali.
“Nelle case basse di via Montecchio vi erano tante botteghe di artigiani, tra cui quella di un falegname che realizzava prodotti per l’uso agricolo. Costruiva carri da trasporto, ma non le sue ruote, che venivano realizzate dai Pisi. Costruiva carriole, e tante cose in legno per i contadini. Questo falegname era chiamato Reca, penso fosse un soprannome che gli avevano affibbiato per qualche motivo.
E chi non ricorda Rosati detto da tutti il Soìn? Un vero artista nel costruire quei contenitori in legno dove le donne facevano il bucato e che venivano utilizzati anche come vasca da bagno. Il suo forte era fare dei piccoli barilotti in legno, per il vino e l’aceto, e anche per le conserve; in quel tempo la plastica per conservare tante cose non c’era, e quindi ci si doveva rivolgere al Soìn.
Lungo quel viottolo chiuso, dove ora hanno costruito le case nuove, lavorava Roberto Sassi che poi insegnerà ai suoi figliastri: i fratelli Pisi. Era un artista da non dimenticare che sapeva costruire in legno salotti, camere da letto e altri mobili di pregio per sale signorili. Per la sua abilità era stato scelto per realizzare i mobili per villa Valcavi. I mobili delle persone più ricche del paese erano realizzati da lui”.
L’importanza del legno come materia prima di molti prodotti, comportava la grande diffusione delle segherie; in paese se ne contavano almeno quattro: quella di Campanini Domenico vicina al sagrato della chiesa; quella dei fratelli Tirelli e quella di Fanti, Ghidotti e soci, entrambe operanti sull’attuale via Matteotti; e infine quella di Primo Spaggiari che si trovava invece nell’area dove è oggi il cinema Forum. Come ci ricorda Lina Violi in uno dei suoi studi sulla storia locale: “La materia prima giungeva dai pioppeti del Po trasportata da camion. Prima di venir tagliati, ai tronchi veniva tolta la corteccia o “scorza” in dialetto. L’operazione era affidata ai “scorséin” che accorrevano a pulire i tronchi finché erano verdi, muniti di scorzatrice. Diversi erano poi gli artigiani che si avvalevano della collaborazione di segantini: il bottaio, i falegnami, i costruttori di mobili, di carri ed attrezzature agricole”.
Una delle principali e più longeve segherie è stata quella di Primo Spaggiari, Ciro Fanti, Ugo Martinelli e Vezio Ghidotti che, dopo averci lavorato come soci, avevano rilevato la vecchia segheria cooperativa di cui il fascismo aveva imposto la chiusura. La testimonianza di Livio Spaggiari, che ricorda il padre segantino, ci fa tornare a quegli anni.
“Il luogo dove ora ci sono negozi ed abitazioni, il condominio Pecchini, era la sede della Cooperativa muratori, falegnami, cementori, segantini, autotrasportatori e affini. Il Fascismo ne provocò la chiusura. Pippo (Vezio Ghidotti) Bala (Ciro Fanti), Frugla (Ugo Martinelli) e al Ceco (Primo Spaggiari) si misero assieme per continuare l’attività della segheria: tagliavano i tronchi degli olmi e dei gelsi ai contadini per farne legna; vendevano legname ai falegnami a cui prestavano anche l’uso del bindello e della pialla; fabbricavano imballaggi in pioppo per le fabbriche di pomodoro delle zone limitrofe e producevano le cassette per la raccolta dell’uva”.
Rivenditori di legname e carbone. Adiacente a questa falegnameria, nell’edificio che oggi è a lato del negozio di sementi su via Matteotti, si trovava una sorta di edificio rurale riadattato dove Flavio Donelli immagazzinava il legno e il carbone da rivendere. L’ interno era suddiviso in vari settori: uno in cui si accatastava la legna di grosso calibro, uno adibito al carbone, che all’epoca si usava anche per far funzionare le stufe domestiche, uno per ospitare lo stallino per il cavallo, utilizzato per trainare il carro per i trasporti, mentre nel “fienile” venivano raccolte le fascine di legna sottile necessarie ad accendere il fuoco. C’era anche un piccolo ufficio, dove i clienti potevano prenotare la legna e il carbone che venivano poi consegnati a domicilio da Flavio Donelli e dai suoi figli.
Era un lavoro faticoso: caricare e scaricare quintali di legna, sbadilare il carbone in mezzo a una nuvola di polvere nera che ti ricopriva da capo a piedi. Ma legna e carbone erano una necessità per ogni famiglia: per il riscaldamento domestico e soprattutto per far funzionare la stufa su cui, prima dell’avvento della rete del gas e dei fornelli, si cucinavano gli alimenti. Nella maggior parte dei casi le ordinazioni di legna e carbone erano quindi abbondanti e i Donelli le movimentavano con un grande carro trainato dal loro cavallo.
Approfittando di questi trasporti, che si estendevano anche nei comuni limitrofi, la famiglia Donelli ha svolto alcune importanti attività clandestine durante la Resistenza. Dentro il deposito, sotto la legna, venivano spesso nascoste armi e vestiario destinati ai partigiani che poi, con il carro, sempre sotto i cumuli di legna, venivano segretamente trasportate a Montecchio, e qui caricate su un camion diretto in montagna. E nella legnaia dei Donelli vennero anche nascosti alcuni disertori, ai quali veniva di nascosto portato da mangiare dalle case popolari.
Sempre in paese,nella zona di Via Montecchio, esisteva un altro deposito di legna, come ci ricorda Guido Mazzali.
“Vicino alle case basse, inoltrandosi poi sino alla fine del viottolo chiuso, vi era il magazzino di legna e carbone di Grostein, chiamato così per la sua piccola statura e la sua magrezza. Questa legna di quercia arrivava dalle montagne trasportata con carri lunghi, ognuno trainato da quattro cavalli in pariglia”.
Gli artigiani. Prima che l’industrializzazione arrivasse a interessare tutti i campi produttivi, operavano le botteghe degli artigiani, ciascuna specializzata in uno specifico settore: c’erano i fabbri, gli zincatori, il sellaio e i calzolai, solo per citare i principali. Servendoci sempre dei ricordi di Guido Mazzali riscopriamo alcuni di questi mestieri dimenticati che, all’epoca, avevano sede nelle zone adiacenti a via Montecchio.
“Ricordo la bottega dello stagnino detto il Gig, sempre piena di fumo acre, perché usava l’acido solforico per pulire le pentole di rame che si usavano a cuocere la polenta e le padelle stagnate per friggere le patate.
Il Gig costruiva in zinco, anche le casse da morto, e noi ragazzi, vedendo quello che stava facendo ce la davamo a gambe, dalla paura che lui ci mettesse lì dentro.
Ricordiamo poi i Ferrrari, che avevano la loro bottega in via Roma. Erano dei veri artisti nella lavorazione del ferro e quando c’era bisogno di un fabbro esperto bisognava rivolgersi a loro che, dotati di grande abilità, erano in grado di costruire qualsiasi oggetto in ferro.
Come ricordo bene, la loro bottega era piena di cinghie, dove con un solo motore elettrico facevano funzionare tutti i macchinari che gli servivano. Mi fermavo meravigliato quando dovevano battere un grosso pezzo di ferro arroventato per ottenere la forma che desideravano. Lavoravano in quattro sullo stesso pezzo: uno lo teneva con una grossa tenaglia e gli altri tre, con la mazza in un sincronismo perfetto, lo battevano fino che perdeva il suo calore. Continuando così fino ad ottenere il risultato voluto. I Ferrari erano capaci di costruire i cancelli per le ville più lussuose, le recinzioni e i portali con decorazioni così belle da rimanere a bocca aperta.
Noi ragazzi sapevamo sempre quando i fratelli Violi cambiavano i ferri agli zoccoli dei cavalli. Erano loro che li costruivano con la fucina a carbone cocke. Avevano nomi non comuni: uno si chiamava Ismaele e l’altro Iafet, ma da tutti erano conosciuti con il soprannome i “Bariciàna”. Li ammiravamo quando cambiavano i ferri al cavallo e l’animale stava fermo e impassibile; ci dava l’impressione che i Violi gli mettessero delle scarpe nuove, e che si sentisse onorato del lavoro che avevano fatto con arte i maniscalchi.
Lì vicino, nelle cosiddette case basse, lavorava un sellaio, che costruiva con vera arte i fìnimenti e le gollane per cavalli, muli e asini. Il sellaio Ceci era un vero artista nel lavorare il cuoio e con la sua arte costruiva le selle per i cavalli al galoppo, e anche delle fruste a corame incrociato, e per finire una quantità di lavorazioni con questo materiale”.
Troverete questo ed altri racconti nel volume “Sant’Ilario com’era: Il lavoro, le botteghe e le industrie storiche” disponibile presso la Tabaccheria di Boni Giovanni di Via Val d’Enza 12 a S.Ilario.