PER I MORTI DI REGGIO EMILIA
Celebriamo il sessantesimo anniversario dell’eccidio del 7 luglio con i ricordi di alcuni santilariesi
di Giorgio Casamatti
A pochi anni dalla Liberazione e dalla fine della dittatura fascista che – anche nella nostra provincia aveva colpito duramente il movimento proletario e gli esponenti dei partiti di sinistra con violenze ed esecuzioni sommarie – Reggio Emilia è stata teatro di uno dei più gravi fatti di sangue degli anni ’60.
Potrebbe sembrare pretestuoso collegare la Resistenza con l’eccidio di Reggio Emilia ma, come vedremo, esiste una sorta di continuità tra questi due eventi. Le manifestazioni organizzate dalla sinistra proprio nel 1960 erano infatti la risposta politica al nuovo governo democristiano, presieduto da Fernando Tambroni e sostenuto in modo determinante dai voti del Movimento sociale italiano. Queste proteste, iniziate a Genova alcuni mesi prima, volevano impedire che in quella città, medaglia d’oro della Resistenza, venisse ospitato proprio il congresso del MSI, come ricorda anche Elio Palmia in un articolo del Gazzettino in cui rievoca i fatti del 1960.
“Penso che tutti ricordino, tanto per citare l’esempio più clamoroso, i fatti di Genova, dove i neofascisti avevano convocato il loro congresso nazionale e da dove furono cacciati dagli antifascisti dopo una battaglia sostenuta per vari giorni contro la polizia di Tambroni. A Reggio Emilia, il 30 aprile, il missino Almirante fu costretto a fuggire dai fischi e dagli insulti dai giovani intervenuti in Piazza Prampolini dopo aver pronunciato solo quattro fatidiche parole: «Camerati, popolo di Reggio». Ricordo che in quella occasione ad affrontare le cariche della polizia ci ritrovammo per la prima volta noi giovani della FGCI (Palmia Domenico, Sorboni Romano, Melegari Ivan, Violi Romano e tanti altri di cui ora mi sfugge il nome) al fianco degli ex partigiani (Balestrazzi Emilio, Salvatori Settimo, Arduini Angelo, Cattellani Enzo) e dei dirigenti del PCI (Poletti Lelio, Antonio Iotti “Tognett”, Ghidotti Gianfranco “Poma”)”.
Questi cortei antifascisti, che spesso venivano interrotti da violente cariche della polizia, fecero crescere progressivamente la tensione tra le forze dell’ordine e i manifestanti tanto da giustificare, seppure in modo pretestuoso, il massiccio schieramento di forze, in assetto di guerra, che si troveranno davanti i partecipanti al comizio indetto a Reggio il 7 luglio del 1960, come viene ricordato in un articolo redazionale del Gazzettino uscito a pochi giorni da quei tragici eventi. “Tra i colpevoli vi furono anche gli irresponsabili che comandavano i 350 agenti (…). Questi uomini incitati all’odio verso il cittadino, armati fino ai denti come briganti, carichi di bombe, di mitra, di maschera antigas, di sfollagente, questi sono gli autentici provocatori. (…) Sono venuti in piazza in tenuta da guerra, schierati come dei soldati contro le folle inermi dei cittadini”.
Questo clima teso viene ricordato anche da altri testimoni, come Luigi Iori ed Elio Palmia. “Fin dalle prime ore del pomeriggio si avvertiva qualcosa d’insolito: l’adesione allo sciopero, la dislocazione, avvenuta al mattino, di numerosi mezzi della polizia lungo la via Emilia faceva presagire che sarebbe successo qualcosa di grosso”. (Elio Palmia, Gazzettino santilariese).
A gettare benzina sul fuoco si era anche aggiunto l’insensato ordine, emanato dal Prefetto, di vietare qualsiasi assembramento in Piazza della Libertà relegando le migliaia di partecipanti convenuti per il comizio indetto dalla Camera del Lavoro in una sala che ne poteva ospitare al massimo un centinaio. Molti dei manifestanti, non trovando quindi posto nella Saletta Verdi si erano riversati nell’antistante piazza della Libertà, dove da lì a poco si sarebbe perpetrato l’eccidio.
In piazza le forze dell’ordine erano armate e schierate come se aspettassero il minimo pretesto per caricare con violenza la folla inerme e disarmata. Sempre nell’articolo pubblicato all’indomani dell’eccidio si ricordano le motivazioni pretestuose accampate dalla polizia per giustificare l’azione repressiva e l’uso della forza. “Per loro un canto di protesta diventa un «oltraggio al Governo», i canti della Resistenza diventano «urla di scalmanati e facinorosi», la piazza che si riempie malgrado gli ordini diventa «una sedizione da stroncare sul nascere». Questo è il clima del brutale eccidio. Il resto sono menzogne: come l’infame accusa ai dimostranti di essere armati.”.
Le testimonianze pubblicate sul Gazzettino del Luglio 1960 ci permettono di ricostruire i drammatici eventi che portarono all’uccisione di 5 manifestanti inermi: Lauro Farioli, operaio di 22 anni; Ovidio Franchi, operaio di 19 anni; Marino Serri, pastore ed ex partigiano, di 41 anni; Afro Tondelli, operaio ed ex partigiano, di 36 anni; Emilio Reverberi, operaio ed ex partigiano, di 39 anni.
“Decisi di presenziare al comizio che di lì a poco il locale segretario della Camera del Lavoro doveva tenere alla sala Verdi; qui giunto, mi riferirono che la sala era stracolma e che erano in corso trattative per installare negli edifici prospicienti alla Piazza della Libertà alcuni altoparlanti. Dopo quindici minuti di attesa le cose precipitarono” (Iori Luigi sul Gazzettino del Luglio 1960).
“La verità è che si è sparato in quattro o cinque luoghi diversi, ad intervalli diversi per oltre venti minuti di fuoco al solo ed unico scopo di disperdere la folla e sgombrare la piazza”. (Redazionale, Gazzettino del Luglio 1960).
Questi fatti provocarono naturalmente una forte e generale ondata di sdegno con manifestazioni a livello nazionale e interpellanze parlamentari che portarono in breve alla caduta del nefasto Governo Tambroni che, pur rimasto in carica per soli 123 giorni, aveva rigettato l’Italia nel clima di paura e violenza degli anni più bui della dittatura fascista.