TUTTA L’EUROPA CHE SERVE
Le elezioni europee dell'8-9 giugno saranno uno spartiacque essenziale per il futuro del nostro continente. L'Unione Europea dovrà agire con un livello di coesione ed efficacia mai visto prima: per farlo serve un deciso scatto in avanti delle politiche comuni europee e una radicale riforma delle istituzioni comunitarie, per ridare all’Unione un ruolo incisivo e autorevole.
(di Giordano Colli)
Le crisi globali degli ultimi cinque anni stanno mettendo a nudo tutte le fragilità politiche e strategiche dell’Unione Europea, che ha bisogno di essere radicalmente riformata per affrontare le sfide del presente e del futuro e per continuare a perseguire gli obiettivi che si erano dati i suoi Paesi fondatori. Quali erano questi obiettivi? Quali sono tuttora? Poter vivere in pace, espandere il perimetro geografico e culturale della democrazia, delle libertà individuali, della giustizia sociale, della centralità dei diritti umani, del benessere collettivo, della tutela del lavoro, della competitività produttiva come presupposto per la redistribuzione della ricchezza. Possono sembrare obiettivi ambiziosi, eppure è esattamente ciò che la costruzione dell’Europa comune ha gradualmente portato ai cittadini comunitari dal 1957 in avanti, passo dopo passo, fino a pochi anni fa. Ma qualcosa si è inceppato in questo percorso virtuoso, e le difficoltà politiche e procedurali si sono acuite nel tempo, nell’impossibilità di approvare riforme efficaci in grado di ridare lo slancio necessario all’integrazione europea. Anziché guardare avanti, una parte dei governanti europei, seguiti da una parte dei popoli europei, hanno cominciato a guardare indietro. Le cause sono molteplici, alcune molto evidenti. In primo luogo il progressivo affievolirsi di un idealismo europeista man mano che si allontanavano gli echi tragici della seconda guerra mondiale e aumentava il benessere. Decennio dopo decennio, si è consolidata la convinzione che la guerra a casa nostra non sarebbe mai più tornata, che la povertà di milioni di persone fosse ormai alle spalle, che le libertà civili e sociali fossero acquisite una volta per tutte. Ci siamo sbagliati. L’Europa unita è stato un motore potentissimo quando i Paesi membri hanno scelto di lavorare insieme su strategie comuni tenendo fede ai propri valori e quando hanno parlato e agito con una voce sola. E’ invece rimasta al palo quando hanno prevalso le spinte a tornare indietro, quando ogni Paese si è mosso in ordine sparso, spesso dedicando più energie alla competizione interna che a concordare programmi strategici per rendere tutta l’Europa più forte nelle sfide globali. Questo arretramento ha sempre coinciso con una grande menzogna, sbandierata dalle destre e dal populismo sovranista: per fare gli interessi nazionali bisogna fare da soli. Ma è esattamente il contrario, lo sanno gli stessi primatisti del sovranismo, lo sanno Trump, Biden, Putin e Xi Jinping, ben consapevoli che una Unione Europea debole e frammentata apre intere praterie agli interessi economici e geopolitici di quei Paesi. Chi da noi invoca “meno Europa” non fa gli interessi della propria Nazione. Fa un enorme favore alla Cina, agli Stati Uniti e alla Russia, a scapito del benessere dei cittadini europei. Tutte le grandi problematiche contemporanee sono su scala internazionale ed è impossibile governarle efficacemente con i soli strumenti nazionali di un singolo Paese: affrontarle su scala europea con efficaci strategie comuni non significa cedere sovranità nazionale, significa esercitare una sovranità condivisa all’interno delle istituzioni comunitarie. L’alternativa, fallimentare, è isolarsi nei propri confini. Lo chiamano protezionismo, ma il termine è fuorviante, perché non protegge nulla e nessuno, possiamo uscirne solo più deboli e poveri. Serve uno scatto dunque, un cambiamento incisivo delle procedure decisionali dell’Europa comunitaria, che non hanno retto l’impatto dell’allargamento dei Paesi aderenti; ed uno scatto in avanti nei programmi di integrazione delle politiche dei singoli Stati membri. Serve una politica estera comune che consenta all’UE di essere riconosciuta come soggetto che esprime una volontà univoca nelle grandi questioni di politica estera, nelle relazioni diplomatiche, nelle conferenze di pace. Anche uno degli ultimi tabù dell’integrazione comunitaria deve essere superato: l’organizzazione di una difesa integrata europea, da attuarsi nelle forme compatibili con un tema così sensibile e delicato, è ormai questione che non può più essere rimandata. Come non può più essere rimandata una complessiva strategia geopolitica dell’Unione Europea per ridare competitività ai sistemi produttivi dei propri Stati membri: dall’indipendenza energetica alla fornitura delle materie prime essenziali per affrontare la transizione ecologica, dalla possibilità di massivi investimenti pubblici europei ad interventi per lo sviluppo delle nuove tecnologie. Salvare la competitività produttiva (e quindi il benessere economico e sociale) del vecchio continente non è un obiettivo che può raggiungere da solo un singolo Stato: è un tema che ci impone di agire come Unione Europea ad un livello mai fatto prima.
Dobbiamo mettere in campo tutta l’Europa che serve per incidere sugli scenari internazionali. Non solo per preservare il benessere economico e sociale dei cittadini europei, ma anche perché il mondo ha bisogno di un’Europa unita per risolvere problemi complessi, affrontandoli con il bagaglio di competenze e di valori che l’Unione Europea porta con sé. Le prossime elezioni europee dell’8 e 9 giugno saranno uno spartiacque essenziale per il futuro del nostro continente. Da una parte una destra che chiede “meno Europa”, la stessa destra che voleva uscire dall’Euro e applaudiva la Brexit, dall’altra parte il Partito Democratico e il centrosinistra, che chiedono una riforma radicale delle istituzioni europee e un netto cambio di passo per ridare all’Unione un ruolo incisivo e autorevole. Perché, come affermava Mario Draghi e come ci insegna la Storia, “nel sovranismo c’è solo l’inganno di ciò che siamo, l’oblio di ciò che siamo stati e la negazione di quello che potremmo essere”.