Una storia vera di Lavoro e di Libertà
(di William Colli)
Per chi crede in certi valori, i giorni che intercorrono fra il 25 aprile e il 1° maggio sono sempre speciali. In quella breve settimana scorrono uno dopo l’altro molti degli ideali su cui è stata costruita la nostra Repubblica. La liberazione dal nazifascismo, la libertà ritrovata, la democrazia, la dignità dei lavoratori, la solidarietà, la lotta per i diritti civili e sociali, la centralità del lavoro come forma di realizzazione delle persone. E allora in questi giorni così carichi di significato, rispolvero una storia pubblicata anni fa sulle pagine del Gazzettino. Una storia che sembra poter racchiudere, nel suo piccolo, l’essenza di quei valori. E’ la storia di Otello Colli, mio padre, scomparso tanti anni fa. Era un uomo taciturno ma sempre cordiale, si esprimeva più con lo sguardo e il sorriso che con le parole. Era più portato al fare che al dire, e questo lo fa spesso ricordare nel suo ruolo di capo cantiere, da chi l’ha conosciuto. I suoi giovani muratori di un tempo mi dicevano della sua tenacia e dedizione, e del suo spirito buono e giusto. Non so da cosa fosse forgiato questo suo essere, probabilmente dagli anni della gioventù, iniziati dai mancati studi che l’hanno fermato alla prima elementare, dal suo farsi da sé, o forse anche dalla durezza della vita che lo portò a lavorare all’estero per un pezzo di pane per i propri cari. Lavorò in Francia, a Danzica, in Africa, oppure a fare il garzone in provincia. Quando si parla dei “bei tempi antichi” come se fossero qualcosa da riproporre oggi, bisognerebbe ricordare i sacrifici che segnavano concretamente la pelle di queste persone. E’ certo però che quei sacrifici segnano il carattere di chiunque, e un uomo può crescere nel disprezzo di chi li ha cagionati, o nel rispetto per tutti gli esseri umani. Mio padre era uno di questi ultimi, sempre pronto ad aiutare il prossimo e attento ai bisogni della propria famiglia, a partire dai nipoti meno fortunati, oppure, fino all’ultimo dei suoi giorni, pronto a lasciare al bar del bocciodromo i suoi amici di chiacchiere e di gioco a busche per venire a casa a giocare a ramino con mia moglie Maria, per non farla sentire sola perché a letto in convalescenza dopo un’operazione. Piccole grandi cose. Io credo che questo suo essere dal sapore antico, mite e determinato, buono e rigoroso, sia stato forgiato anche dai mesi di prigionia nel campo di concentramento nazista di Bolzano. Lo credo non solo perché ogni esperienza di vita dà o toglie qualcosa, ma perché pensando a coloro che hanno vissuto una esperienza simile o peggiore, non vedo nessuno che viva con rancore o con cattiveria, ma tutti con apertura e disponibilità verso il prossimo. Non so dire molto di quei mesi terribili che sono passati dal suo arresto al suo fortunato ritorno. Mio padre non mi ha mai raccontato davvero quel periodo, dal carcere di Parma al campo di prigionia di Bolzano, non so dire se per naturale pudore o se per una misurata riservatezza propria di coloro che sono tornati dai campi di concentramento. So trasmettere solo un qualche ricordo buttato lì nelle chiacchiere che si facevano a tavola, particolarmente nelle “feste comandate” che per mio padre erano il 25 aprile e il 1° maggio. A casa, in via Don Pasquino Borghi, vennero ad arrestarlo con una squadra guidata da un fascista locale. Quando si fecero aprire la porta, resosi conto della situazione mio padre guardò istintivamente la finestra di casa che dava sui bassi tetti sottostanti, il comandante della squadra capì l’intenzione di fuga e gli disse “non azzardarti, in cortile c’è una mitragliatrice.” Lo portarono nelle carceri di Parma dove i nazisti torturavano gli arrestati nella speranza di ottenere informazioni. Fu poi trasferito a Bolzano, da lì passavano tutti prima di essere trasferiti nei campi di sterminio nazisti, primo fra tutti il campo di Mauthausen. Mi disse che, essendo un muratore, lo utilizzavano in piccoli lavori all’interno del campo e per questo non aveva subito le maggiori privazioni riservate a coloro che non avevano una professione utile ai loro bisogni. Non fu trasferito a Mauthausen per un caso fortunoso. Erano informati che dovevano essere trasferiti in treno ma nella notte gli alleati bombardarono la ferrovia rendendo impossibile il trasferimento e finirono i giorni di prigionia a Bolzano. Il 1° maggio 1945 furono scossi da un annuncio trasmesso dagli altoparlanti del campo: sentirono dire che la guerra era finita e che tutti potevano andarsene per fare ritorno alle loro famiglie. Seppi poi che le SS consegnarono il Lager il 30 aprile alla Croce Rossa internazionale. Quell’annuncio evidentemente è da attribuire al comando della Croce Rossa. Da ciò che ho capito da mio padre, l’annuncio arrivò inatteso, evidentemente non avevano alcuna informazione sull’andamento della guerra. All’annuncio si guardarono in faccia perplessi senza sapere se crederci o no, anzi il primo pensiero fu di non muoversi per paura di essere falciati a raffiche di mitragliatrice, poi pian piano cominciarono ad incamminarsi verso casa. Conosco poco del viaggio di ritorno, papà mi disse solo che in tanti si fermavano a mangiare tutto quello che gli capitava e che gli era offerto e non tutto andò bene. Troppo deboli per mangiare di tutto senza minare ulteriormente la propria salute. Ad un certo punto videro un camion militare con bandiera americana che gli veniva incontro e cominciarono a fare segnali con le braccia: purtroppo a poche decine di metri dal gruppo di deportati in cammino, l’automezzo sbandò e finì nel canale laterale, il risultato fu che i deportati aiutarono gli americani feriti nello schianto. Purtroppo non mi disse molto altro. Mia madre mi raccontò che dopo qualche giorno l’avevano accompagnato in caserma a vedere imprigionato chi lo aveva arrestato: papà aveva preso sberle che gli avevano lasciato i segni in faccia, ma Otello lo guardò in silenzio, gli vennero gli occhi lucidi e senza dire niente voltò le spalle e venne via, e quel silenzio fu un grande grido di dolore, di condanna e di pena verso quell’uomo piccolo e cattivo. Io sono un figlio della liberazione, qualche mese dopo la mia mamma restò incinta e nacqui il 20 agosto 1946. Mio figlio Giordano è nato il 1° maggio 1974. Mio padre ne era molto orgoglioso perché decisamente il 1° maggio era la sua giornata felice: festa dei lavoratori, giorno della propria liberazione dal campo di concentramento e nascita di suo nipote. Quel giorno non mancavano mai i cappelletti in tavola.