“FIRST MAN” di Damien Sayre Chazelle
Lo struggente e ossessivo sbarco sulla Luna, tra orizzonti spaziali e il dolore della perdita
di Massimiliano Villa
Se vi aspettate un film epico, storico-celebrativo, di rilancio del grande “sogno americano” in chiave di supremazia tecnologica nella corsa alla conquista dello spazio … beh, questo non è il vostro film. “First Man” è un film straniante, ossessivo e claustrofobico sul dolore e sulla distanza. La vicenda si sviluppa costantemente su un doppio piano narrativo: da un lato, la preparazione e la realizzazione di una missione rischiosa, forzata e avventata (lo sbarco del primo americano sulla Luna); dall’altro la straziante perdita di una figlioletta di 2 anni per una grave malattia che consuma e allontana i coniugi Neil e Janet Armstrong. Questo si traduce in una continua contrapposizione fra azione e introspezione, fra rumore e silenzio, fra orizzonti infiniti e primissimi piani degli sguardi “in trappola” dei protagonisti. Molto del tessuto narrativo, a ben guardare, passa dagli occhi dei personaggi: occhi che piangono una persona cara, occhi che sognano di raggiungere la Luna, occhi che non riescono più ad amare, occhi terrorizzati dalla consapevolezza di essere destinati ad una morte certa. Primi piani degli occhi. Non vorrei scomodare Sergio Leone … ma forse la suggestione ci sta. Altro elemento spiazzante e intrigante è quello della povertà tecnologica: fin dalle prime immagini infatti gli astronauti si ritrovano dentro a “carcasse” di metallo anguste, rumorose e precarie, dove la sopravvivenza sembra dipendere più dalla tenuta di un bullone che non dal risultato di una complicata equazione interstellare. Le navicelle spaziali sferragliano, i portelloni cigolano e per quanto ci è dato sapere è un miracolo riuscire a tornare a casa vivi. Nessuna superiorità tecnologica, nessuna avanguardia, nessun mito del progresso: siamo in presenza di uomini spinti dall’ambizione, dalla guerra fredda, nonché magari (solo nel migliore dei casi) da un sogno, da una visione … o da un’insanabile dolore da superare. Così come i corpi degli astronauti sono schiacciati e compressi in contenitori angusti, primitivi, dolorosi, così restiamo noi spettatori davanti ad un film ipnotico e ossessivo, che stordisce ma che ogni tanto sa colpire molto duro: cito solo la scena dell’incendio nel razzo durante il test (senza aggiungere altro) che da sola vale il prezzo del biglietto. Molto personale ed estremamente efficace la regia di Chazelle, che riporta indietro l’orologio agli anni ’60 in modo magistrale e che riesce a trasmettere la maggior parte delle emozioni in “assenza”, giocando sui vuoti, sui silenzi e sugli effetti stranianti dovuti a prospettive di ripresa (e sonore) molto originali. Ottimi gli interpreti, anche se metto Claire Foy (la moglie di Armstrong) sopra a tutti, anche a Gosling. Lo sceneggiatore è Josh Singer, quello de Il quinto potere, Il caso Spotlight e The Post. Produce Spielberg, e si vede.
Massimiliano Villa