“Tunnel of Love” di Bruce Springsteen – ottobre 1987
Il Boss canta l'amore e i suoi tanti fantasmi, nel suo disco più intimo, maturo e personale
di Giordano Colli
Quando nell’ottobre 1987 esce “Tunnel of Love”, Bruce Springsteen è una rockstar di fama planetaria. Il suo disco precedente, “Born in the U.S.A.”, ha fatto il botto: 30 milioni di copie vendute nel mondo e un tour stratosferico che ha riempito gli stadi ovunque. E’ naturale aspettarsi una ripresa delle sonorità muscolari e roboanti del grande successo precedente, ma Bruce stupisce tutti, dando alle stampe il suo lavoro più intimo, maturo e personale, certamente il più “cantautoriale” fino a quel punto del suo percorso. Un disco semplicemente bellissimo che segnerà una svolta nella lunga carriera del Boss, e che crescerà nel tempo grazie alla qualità indiscutibile delle canzoni, la grazia e l’eleganza elettro-acustica degli arrangiamenti, la disarmante sincerità dei suoi testi. “Tunnel of love” è un disco letteralmente fatto in casa: viene registrato quasi in solitudine nello studio privato del ranch di Springsteen in New Jersey, con il solo aiuto di un tecnico del suono; gli interventi musicali di alcuni membri della inossidabile E Street Band verranno sovraincisi dopo, distillati con il contagocce e solo in alcune canzoni, come a voler rimarcare che questo non è un disco del Boss con la sua fidata band, ma sostanzialmente il lavoro solista di un autore che sentiva l’urgenza artistica di un nuovo cambio di rotta. E quel cambiamento, anticipato dalle scelte fatte per questo album, arriverà come uno schiaffo di lì a poco alla fine del “Tunnel of Love Express Tour” con lo scioglimento della E Street Band; un abbandono difficile, che durerà 10 anni e terminerà nella definitiva “reunion” del 1999 con il ritorno a casa dei compagni di una vita. Tutte le canzoni dell’album hanno un tema dominante: l’amore nelle sue mille sfaccettature, da quelle che risplendono chiare sotto il sole, a quelle più buie e tetre. Non è un caso: Bruce si è sposato due anni prima con la modella Julianne Phillips, ma i bagliori dei fuochi d’artificio stanno già lasciando il posto ai litigi e alle promesse mancate. E lo stato delle cose si riflette con chiarezza nelle canzoni del disco, in cui viene racchiuso il ventaglio dei pensieri contrastati che tante storie d’amore si portano dentro: la gioia inziale di chi si perde fra le braccia altrui, la certezza che sarà per sempre, le prime nuvole scure, i dubbi e le gelosie, le finzioni e la disillusione, la rottura e il dolore, l’amarezza e il senso di colpa. L’album si apre con un piccolo preludio folk-blues per poi lanciarsi subito nella lenta e sontuosa “Tougher than the rest”, una rock ballad struggente e potentissima, in cui il Boss invita la sua amata e scacciare via i suoi tanti pretendenti e a scegliere lui, il più tenace fra tutti; batteria scandita e pompata in bella evidenza, tappeto di testiere fantastiche, due assoli di chitarra e armonica che mettono in chiaro quanta passione troveremo da lì in avanti. “All that heaven will allow” ci mostra ancora un uomo perso nella trepidazione del primo incontro, quello in cui ti giochi tutte le tue carte con lei (“Stasera non posso fare tardi, ho un appuntamento con ciò che il cielo potrà concedermi“). Ma non fai in tempo a perderti in questo romanticismo d’altri tempi che arriva improvviso il primo colpo amaro. Il verso inziale di “Spare parts” è un pugno nello stomaco, crudo come solo la vita sa essere: “Bobby disse che lo avrebbe tirato fuori, ma Bobby rimase dentro, Janey rimase incinta, non c’era niente di male”. E’ il pezzo musicalmente più duro dell’album, una storia drammatica cucita su un rock veloce e tirato in cui dominano le chitarre elettriche distorte in pieno stile E Street Band, l’unico dell’album. Poi arrivano sonorità più distese e acustiche: “Walk like a man” stempera la tensione con un arrangiamento delicato e intimo; il testo, ancora una volta, è spiazzante: Bruce ci parla della mano ruvida di suo padre mentre lo accompagna all’altare, e ricorda quasi con un senso di rimorso i loro litigi, l’incomunicabilità che li ha tenuti distanti per anni, la sua incapacità di vedere i vecchi fantasmi e le frustrazioni del padre (“Ero giovane e non sapevo cosa fare, quando vedevo che ti venivano rubati i tuoi passi migliori”). Siamo a metà del disco, quando si aprono le note arpeggiate di “Cautious Man”, un brano ispiratissimo di disarmante semplicità, solo la voce in primo piano e una dolce chitarra folk; ma le nuvole scure sono già all’orizzonte, e con loro i dubbi e le incertezze del protagonista Billy che “sulla mano destra aveva tatuata la parola “amore”, sulla sinistra la parola “paura”, e non fu mai chiaro in quale mano racchiudesse il suo destino”. Così le paure diventeranno presto disillusioni, rimorsi e finzioni, nelle parole sussurrate dal protagonista di “Two faces” (“ormai ho due facce, una sorride mentre l’altra piange, una le dà il benvenuto e l’altra le dice addio, sono soltanto un mezzo uomo”), o in quelle confessate nella amara “Brilliant Disguise” (“devo capire se non mi fido di te o di me stesso, guardami bene cara, sono ancora io o sono solo un brillante travestimento?”). Quando arrivano le chitarre acustiche e le delicate tastiere di “One step up”, ormai non è rimasto quasi nulla di quella luce che faceva brillare gli occhi e tramare le mani, e la serenità è sempre più lontana. Piccole guerre quotidiane, porte sbattute, silenzi frustranti: “è sempre la stessa storia, notte dopo notte, chi ha torto, chi aveva ragione… quando mi guardo dentro non vedo l’uomo che avevo sognato di essere, un passo avanti e due indietro”. Non serve uno psicologo per leggere fra le righe di queste canzoni tutto il travaglio interiore del loro autore, nel momento in cui il suo matrimonio si sta sgretolando. Quasi come se Bruce, incapace di affrontare la cosa in modo diretto e consapevole, avesse deciso di parlare alla giovane moglie Julianne attraverso le parole dei protagonisti di questo album. Il divorzio, inevitabilmente, arriverà soltanto due anni dopo. E in “Tunnel of Love” era già tutto scritto. Eppure Springsteen riesce a chiudere questo disco incredibilmente profondo ed autobiografico in modo circolare, non con il dolore della rottura, ma tornando al punto da cui tutto era iniziato: la dolcissima Valentine’s Day chiude il cerchio raccontando di un uomo che corre trepidante in auto verso la sua innamorata, “una mano ben ferma sul volante, l’altra tremante sopra il cuore”: perché tutto ricomincia, nella terra dei sogni e della speranza. E allora nel bene e nel male ogni cosa ritrova il suo posto, anche il timore di perderla di nuovo: “non è il grido nero del fiume che mi spaventa cara, ciò di cui ho paura è perdere te”.